Cosa c’è davvero dietro le fiamme che stanno distruggendo l’Amazzonia

Cosa c’è davvero dietro le fiamme che stanno distruggendo l’Amazzonia

Young boy on the road along burning forest Roraima state Amazon. Brazil
Young boy on the road along burning forest Roraima state Amazon. Brazil

Il Salvagente, di Ricardo Quintíli – È una di quelle giornate romane in cui non sai se diluvierà o il sole ti costringerà  a spogliarti degli strati che previdentemente hai indossato. Che si tratti dei cambiamenti climatici o delle semplici bizze di ottobre è difficile saperlo. In ogni caso, il dubbio è per lo meno emblematico dell’intervista programmata. Anche il luogo lo è: una stradina a due passi dal Quirinale, uno degli ultimi luoghi delle istituzioni che accomuna gli italiani.

Assieme a Ivanilde Carvalho, che mi aiuterà nella traduzione e che rappresenta il Comitato italiano Lula Livre, arriviamo nella sede di Greenpeace dove ci aspetta una coloratissima delegazione composta da 4 persone, 3 leader indigeni e un missionario del CIMI (il Conselho Indigenista Missionário). Tutti e quattro sono appena tornati da un incontro con Papa Francesco (Chiquinho, come lo chiamano amichevolmente) e sono ancora emozionati.

“RIDATECI LA TERRA DEI NOSTRI ANTENATI”

A rompere il ghiaccio, alla nostra prima domanda è José Luis Cassupá. Lui è il coordinatore dell’Organizzazione dei popoli indigeni della Rondonia, del NordOvest del Mato Grosso e dell’Amazzonia del Sud (Opiroma). José Luis si è dedicato ai diritti degli indigeni, come insegnante, è sempre stato coinvolto nell’istruzione e nei diritti della salute. Il suo popolo, i Cassupá, furono deportati dalle loro terre tradizionali negli anni ‘30 e ‘40 e portati nelle città dello stato di Rondônia (uno degli Stati del nord dell’Amazzonia brasiliana). Oggi rimangono poco più di 200 Cassupá che continuano a chiedere di riavere la loro terra tradizionale.

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Senza ottenerla, nonostante la costituzione brasiliana garantisca il diritto alla terra alle popolazioni indigene – guai a chiamarli indios, imparo subito, quello è il termine coniato dai colonizzatori -.

Proprio dal rispetto della Costituzione partiamo. E José Luis è un fiume in piena. Un fiume in piena dai toni calmi, quasi serafici, ma dalle parole acuminate come frecce.

“La nostra Costituzione il 5 ottobre 1988 aveva stabilito i nostri diritti sanitari, sociali e ai territori originari tradizionali. E invece ci sono più di 600 terre che ancora non sono state ufficialmente assegnate, nonostante avessero dovuto farlo in 5 anni. Tra queste  i luoghi sacri ai popoli indigeni, quelli in cui abbiamo seppellito i nostri antenati, quelli in cui raccoglievamo i frutti o facevamo i nostri ornamenti”.

E anche quelle assegnate sono state disegnate sulla carta, senza consultarli. “Nel territorio tradizionale nostro c’erano i luoghi in cui raccoglievamo il necessaio per i rimedi, i nostri farmaci. Oppure quelli in cui andavamo a prendere la frutta o gli oggetti sacri. Quelli sono rimasti fuori da ogni riconoscimento ai popoli che li usavano e magari assegnati a chi li coltiva. Oggi noi non possiamo mettere piede nelle aree in cui i nostri nonni ci insegnavano ad andare, altrimenti veniamo accusati di essere terroristi”.

E il furto di terra non si ferma. “Noi siamo stati espulsi, abbiamo perfino dovuto comprare un pezzo di quelle terre. Ora ci dicono ‘al momento della demarcazione voi non c’eravate, non avete diritto’. È come se si volesse cancellare la storia oltre che i nostri diritti con una proposta di legge come quella che sta portando avanti il governo Bolsonaro”.

“QUANTE BUGIE DA BOLSONARO E DALLE LOBBY”

Hozana Puruborà è la leader (cacique è il termine giusto) del popolo Puruborà. Un gruppo che da 20 anni sta chiedendo la demarcazione delle proprie terre in Rondonia. Una richiesta di certezza che ancora non hanno ottenuto dopo essere stati espulsi – sorte comune,  a quanto pare, dei popoli indigeni – dalle loro terre.

“Quello che ci preoccupa è che il presidente Bolsonaro va dicendo all’estero che in Brasile è tutto ok. Ma non è la verità. Non solo non hanno rispettato i dettati della Costituzione ma per vivere nelle nostre terre anche noi abbiamo dovuto comprarle. Se viviamo dispersi nelle periferie delle città della Rondônia, non è certo per nostra scelta. È una scelta del governo e delle lobby dell’agribusiness” commenta amaramente.

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Quando è entrata in vigore la Costituzione del 1988, ci spiega, era stato dato un termine di 5 anni per regolarizzare le terre indigene. Ma con la postilla della “demarcazione temporale”, sulla quale ora punta il governo Bolsonaro, che riconosceva questo diritto a chi, a quell’epoca, viveva nella foresta sono rimasti fuori i popoli come i Puruborà che erano stati espulsi. E che ora si sentono dire: “cosa volete voi? Nel 1988 non eravate nella foresta e dunque non avete diritto alla terra”.

“UN GENOCIDIO OLTRE CHE UN ECOCIDIO”

Le storie di questi popoli, del resto, sono amare come il sapore delle loro terre avvelenate e bruciate.

Adriano Karipuna è uno dei leader del popolo omonimo che è vissuto per secoli nella foresta rondoniense. Ha tre figli ed è il primo figlio maschio di Katiká, uno degli otto sopravvissuti di questo popolo dopo il contatto con la società non indigena, negli anni ’70. In pochi anni i Karipuna si erano quasi estinti, massacrati dalle malattie epidemiche legate al contatto esterno, da una parte, e dalla violenta invasione dei loro territori, dall’altra. Oggi l’intera comunità conta 58 individui (59 ci corregge Adriano, visto che in questi giorni è arrivata una nuova nascita).

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Sebbene il territorio di Karipuna di 152.000 ettari sia, dal 1998, ufficialmente delimitato e dedicato al suo popolo, loro non possono muoversi liberamente sulle proprie terre. Un incontro con i taglialegna o con i tanti che si appropriano delle terre potrebbe mettere a rischio la loro vita. Negli ultimi anni, il popolo Karipuna ha chiesto al governo brasiliano di adempiere al proprio dovere e proteggere la propria terra, la propria foresta e il proprio popolo.

“Dalle mie denunce  – ci dice – è cambiato molto poco e continuiamo a essere minacciati di morte. Una situazione che dipende dall’atteggiamento e dalle pressioni di questo governo che è apertamente anti-indigeno e vuole prendersi l’Amazzonia. Un governo che alimenta odio e divisioni, dietro lo slogan che ‘la foresta non genera economia’. Uno slogan che ammicca chiaramente alle lobby ma che purtroppo fa proseliti anche tra le classi bianche più povere, promettendo esportazioni, economia fiorente. Continua a ripetere: “Perché i popoli indigeni dovrebbero avere la terra? Non ci fanno nulla”. Bugie che fanno presa ma che sono dettate, parola per parola, dall’industria del legname, dai cercatori d’oro, dagli allevatori e dai latifondistidella soia”.

È una delle tattiche di Bolsonaro, purtroppo anticipata da chi lo sostiene. Già il giorno dopo le elezioni. “In un anno e sei mesi dalla sua elezione sono stati invasi circa 200 ettari. E sono solo quelli riconosciuti dalle fonti di polizia. Chi non vedeva l’ora di rubare interi pezzi di foresta, nonostante le operazioni di polizia, si è sentito impunibile. E i risultati ora sono evidenti a tutto il mondo” ci dice Adriano.

“CI MINACCIANO, UCCIDONO I NOSTRI FIGLI”

Risuonano le parole di Adriano a New York nel 2018 e a Ginevra nel 2019 quando con suo fratello André, che è il cacique (il leader) del suo popolo, hanno denunciato alle Nazioni Unite, l’imminente genocidio dei Karipuna. “Non sono parole esagerate – spiega con decisione Adriano – stanno varando leggi su leggi per privarci delle nostre terre. Ci minacciano i cercatori d’oro, i tagliatori di boschi, i latifondisti, arrivano nelle comunità e minacciano di dare fuoco alle case e uccidere i bambini e sempre con la benevolenza della politica. È il progetto della morte del popolo indigeno e di ecocidio della foresta”.

E ora il governo Bolsonaro sta discutendo perfino di aprire alla ricerca mineraria in Amazzonia. “Il progetto di legge è la logica conseguenza di questa politica e mette in pericolo anche le terre acquisite per legge, non solo dicendo che non saranno più assegnate quelle che spettano agli indigeni, ma che saranno ristrette quelle già acquisite e che potranno perfino essere vendute le terre omologate. E come se il diritto delle terre fosse un banale commercio ci si dice: ‘siete 59 persone? Avete troppa terra, che ve ne fate voi che non lavorate e non producete? Va diminuita’. Ma noi proteggiamo 153mila ettari di foresta”.

Gli interessi delle lobby forti sono talmente grandi da passare sopra a tutto e tutti. “Nel nostro territorio – ci dice Adriano – esistono ancora popoli incontattati, che ancora non hanno visto un bianco e in questo caso possono essere sterminati, cacciati senza che nessuno muova un dito. Addirittura possono allagare le loro terre con loro dentro, per fare invasi per bacini idroelettrici, come è già successo. Oggi tentiamo di difendere noi questi indigeni, ma come facciamo se le invasioni li spingono a spostarsi e noi non sappiamo dove sono finiti?”.

“LE MULTINAZIONALI TRA I MANDANTI”

Per anni questi leader hanno lottato praticamente soli, con l’aiuto di Ong come Greenpeace ma senza molta attenzione dall’opinione pubblica mondiale. Ora, però, tutto il mondo si sta accorgendo di quello che accade in Amazzonia. Compresi i consumatori dei paesi ricchi. “Ora ci si comincia a rendere conto – ci dice il leader dei Karipuna –  che le multinazionali sono tra i mandanti di questo ecocidio e genocidio. Lo scorso mese a Bruxelles ho parlato con la Commissione che sta valutando il progetto di accordo con il Mercosur e ho chiesto attenzione perché la soia, l’oro, il legno che viene dalle nostre terre è macchiato di sangue. Anche se basta un gioco di carte false per far finta che non provenga dall’Amazzonia, noi sappiamo che è macchiato del sangue dei nostri figli”.

Con l’aiuto del Consiglio indigeno missionario e di Greenpeace Brasile, ora queste denunce stanno facendo il giro del mondo e Adriano e gli altri coraggiosi leader indigeni girano per il mondo per portare avanti la loro lotta e quella di quella che definiscono la resistenza per proteggere la protesta.

IL GRANDE INGANNO DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE

E per svelare il grande inganno di quella che molte industrie e politiche chiamano sviluppo sostenibile.

“Quello che chiamano in questo modo è semplicemente distruzione e morte”. Adriano non usa certo giri di parole. E spiega: “Ci sono in Amazzonia 880mila indigeni con lingue diverse, con culture diverse. Per chi dovrebbe essere sostenibile questo sviluppo? Quello che per noi è sostenibile – e in questo c’è un filo comune in tutti i popoli indigeni – è vivere in pace, in armonia con la natura, senza sterminio. Quando il governo brasiliano parla di sostenibilità, giustifica la deforestazione di alberi secolari creando pascoli. In Brasile ci sono 800 studi per costruire nuove dighe. E tutti parlano di sostenibilità quando in realtà finiranno per allagare le nostre terre. Sono sostenibili le strade che feriscono la foresta? Eppure è così che le presentano”.

Aggiunge Hozana: “In più per noi è l’estinzione e la condanna a una vita da derelitti. Veniamo cacciati dalle terre per costruire le dighe e finiamo ai margini delle città senza alcuna possibilità di trovare impiego, dato che per quei lavori portano solo gente di fuori”.

José Luis ci tiene a spiegare cosa è per gli indigeni sostenibile: “Il rispetto per la natura e la cultura diversa di ognuno. La foresta amazzonica è un tutto e i popoli che ci abitano da secoli sono parte di questo tutto. Se noi uccidiamo un uccello come questo (e ci indica lo splendido copricapo che indossa) lo facciamo per il consumo personale e utilizziamo tutto, le penne e le ossa per decorarci. Quando prendiamo un frutto lo usiamo per mangiare, gli scarti li diamo alla terra o agli animali. Questo è ‘envolvimento’ (coinvolgimento, ndr) che nulla ha a che fare con il ‘desenvolvimento’ (lo sviluppo, ndr)”.

Aggiunge Adriano: “Fateci caso, tutto quello che ha il prefisso ‘des’ in brasiliano ha un significato minaccioso: des-matamento (il disboscamento), des-placamento (l’allontanamento forzato degli indigeni) e des-envolvimento (lo sviluppo)”.

Eccoci. Con il cuore stretto e molte certezze in meno di quando siamo entrati, li stringiamo in un abbraccio. Loro ci stringono, sorridono nonostante tutto. E non ci lasciano prima di averci chiesto un selfie in cui, questa volta, l’attrazione siamo noi. Ci fanno indossare i loro copricapi e (giustamente) ridono di cuore. Non li ringrazieremo mai abbastanza del loro coraggio…

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